Meditazioni pietroburghesi
di Stefano Maria Capilupi
Ci sono cose che impari a dieci anni, altre a venti, altre a trenta…Italo Calvino diceva che solo a quarant’anni si impara a vivere le cose così com’è che vanno vissute. Forse esagerava. A trenta però io imparo definitivamente, pur sapendola da diversi anni, una cosa per me (e spero non solo per me) importantissima. Questa cosa l’ho imparata in Russia, a San Pietroburgo: la domenica della Pasqua bisogna gridare e augurare agli amici e ai nemici non “Buona Pasqua” (e che significa? la festa è cominciata ed è già finita!), ma “Cristo è risorto! E’ risorto! E’ veramente risorto!”. Sì, Cristo è risorto, il Cristo è veramente risorto. In russo: “Khristòs voskrès! Voìstinu voskrès!”. Come vedete, la parola augurio quasi non si confà a questo grido. Non è un augurio, ma un annuncio, una meravigliosa comunicazione, una splendida ambasciata, nella quale l’ambasciatore porta solo gioia, e nessuna pena. Il venerdì e il sabato pomeriggio che precedono la domenica liturgica è poi quasi meglio tacere del tutto. Fare digiuno della parola, di quella preziosa parola, così violentata e sperperata dai giornali e dalla televisione. Non dire nulla.
“Buona Pasqua” sarebbe solamente l’augurio di passare del tempo piacevole insieme ai cari, ma questo bisogna augurarlo ogni giorno, non solo a Pasqua. Altrimenti avrebbe proprio ragione quella canzoncina che diceva “E buona Pasqua pure a te…”. No, non è tutto uno scherzo in questa vita. Scherzare, giocare, ridere, è meraviglioso (“Vi abbiamo suonato il flauto, e non avete ballato” diceva il Cristo – Luca, 7, 32, Matteo 11, 17); ma non è tutto una presa in giro. Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi. La Pasqua è un annuncio, e non un fuggevole augurio. Queste cose si possono imparare in Russia, e in tutto l’Oriente cristiano. L’Oriente poi, volendo, è a due passi da casa. Lo sapevate che vicino Roma c’è un meraviglioso Monastero greco-cattolico? Si chiama Abbazia di San Nilo. Andateci, e chiedete di padre Matteo. Se sarà occupato, ripassate un altro giorno, o fatevi annunciare. Padre Matteo legge e vi racconta la Bibbia e la Liturgia come nessun altro, direttamente dalle fonti greche ed ebraiche. Queste lingue lui le conosce come la sua lingua-madre, l’italiano; e la sua madrina spirituale era russa, di San Pietroburgo. Io ho avuto e ho solo la foto di questa luminosissima vecchina, madre Junia Hintz, monaca del Grande Schema Eremita ed iconografa del monastero Russo Uspenskij a Roma. Sì, il viso di Junia è luminosissimo, e mi raccontano che sorrideva e rideva con una dolcezza senza fine. Amava anche le barzellette. Esiste una leggerezza della santità: “ljògkast’ svjàtasti”. Queste parole ve le sto scrivendo come si pronunciano, perché voi possiate ripeterle, a voce. Junia vi udirà. Adesso Junia non è più fra di noi su questa terra, ma lo è molto di più nella preghiera che ci unisce a chi ha già compiuto il passaggio.
Il papa aveva ragione: bisogna tornare a respirare con ambedue i polmoni (e lo sapevate che queste erano le parole di un pensatore russo, Vjacheslav Ivanov?). Questo è possibile, non sono necessarie solenni riunioni ufficiali, documenti, future e forse storicamente ormai impossibili riunificazioni ecclesiali. No, il dialogo è sufficiente. La vita stessa è tutta un dialogo, se la vivi pienamente. Questo lo diceva un altro scrittore russo, Mikhail Bakhtin. Non siete d’accordo? Il cristianesimo è un mondo ricco di diverse tradizioni, da conoscere e vivere con un solo respiro, e con tutti e due i polmoni.
Ricordo che più di un anno fa entrai, come faccio non di rado (ma non sempre: ci sono anche chiese cattoliche latino-russe in Russia, si può rimanere uniti alla propria tradizione anche amando il dialogo con tutto il cuore), in una chiesa russo-ortodossa di San Pietroburgo. Volevo prendere la comunione durante la loro solenne liturgia. Mi fu indicato il parroco, padre Mikhail. Era la chiesa di Sant’Andrea, in pieno centro. Dissi al padre: “Vorrei comunicarmi”. Mi rispose: “Va bene, confessati fra poco, e ti potrai comunicare”. “Lo sapete che io sono cattolico, questo non vi disturba?”, incalzai. Lui, di rimando: “Come disse il metropolita Platonov alla fine del XIX secolo, le mura fra di noi non si inerpicano fino al Cielo!”. Sorrise e mi indirizzò verso il confessore. Anche queste cose succedono a San Pietroburgo; e non solo.
Con me da un po’ di tempo è sempre anche un altro ricordo. Era un’aula universitaria. Parlava uno dei mie professori preferiti di qui: si chiama Lebedev, è giovane, avrà quarant’anni, un vero russo, anche se all’europea, senza barba. Occhi chiarissimi, mascella possente, sorriso contagioso. Leggeva, lui che è specializzato in filosofia antica, una lezione introduttiva sul delicato rapporto tra fede e ragione. Parlava nello stesso tempo di Hegel e di san Serafim Sarovskij, il san Francesco russo, per intenderci, anche se è vissuto ai primi dell’Ottocento. Parlava quindi di cose apparentemente diverse, ma in realtà profondamente unite. Successe quindi un piccolo miracolo, di cui solo io e qualche amico siamo a conoscenza e che non ho fatto ancora in tempo a confidare neanche allo stesso Lebedev. A un certo punto il professore diceva: “Per spiegarvi cos’è la fede in rapporto alla ragione vorrei farvi un piccolo esempio. E’ una specie di mito che ho inventato io, ma che un po’ aiuta a capire. Immaginatevi che un uomo sia in cima ad un tetto e cammini, disinvolto, verso il precipizio…”. Rimasi di sasso. Lo ascoltavo eppure non riuscivo a credere alle mie orecchie. Queste erano le stesse parole di mio padre, morto nel 1994! Enzo, mio padre, era avvocato, nato nel 1926 e reduce della Seconda Guerra Mondiale. Per un’ironia del destino era finito, lui giovanissimo fascista, nei lager tedeschi, prima a Norimberga e poi nella stessa Dakau. Se l’era un po’ cercata. Era la Pasqua del ’44 e aveva detto all’ufficiale tedesco: vado a Roma a stare con i miei per le vacanze di Pasqua e poi torno. Mio padre aveva sei fratelli. L’ufficiale tedesco disse di rimando: “Ma sei matto, o vuoi disertare?”. Mio padre pensò che non ci fosse comunque niente di grave nella propria richiesta, e andò lo stesso. Poi tornò al fronte, sicuro di cavarsela con qualche giorno di cella. Invece venne prima bastonato a dovere e poi spedito in Germania. A Dakau alla fine fu liberato dai russi.
Era l’estate del ’92 e papà mi raccontava su mia richiesta i particolari della sua esperienza bellica. Poi mi confidò anche le sue riflessioni su Dio. Erano un po’ elusive e rassegnate, come anche altre volte. Mio padre era un agnostico, e a messa andava raramente, per far piacere a mia madre. Mi disse: “Dio guarda l’uomo, che si trova sulla cima di un tetto. L’uomo è bendato e cammina, tranquillo, verso il precipizio. Dio sa che l’uomo cadrà, e non fa nulla”. Le stesse parole di Lebedev diversi anni dopo! Ascoltavo Lebedev ed ero teso, emozionato. Non capivo. Che c’entrava quest’immagine di tristezza con la fede entusiasta di Lebedev? Mio padre in fondo lo capisco, era anziano e intristito dalle difficoltà del presente e dai ricordi di guerra che io gli chiedevo di riportare alla superficie. Ma Lebedev? Doveva voleva arrivare?! Il professore finì di raccontare il suo mito: “L’uomo cammina, raggiunge il margine del tetto, muove ancora i suoi passi e…prosegue, volando come un libero uccello. Sono queste le ali della fede”. La fede, che è realizzazione di cose attese e sicurezza di cose invisibili (Lettera agli Ebrei, 11,1).
Queste cose succedono a San Pietroburgo, succede che tuo padre torni a parlarti con le labbra di un altro padre modificando il proprio pensiero di quel tanto che serve a darti una nuova, luminosa speranza. Luminosa quanto questo cielo senza fine che sovrasta la Venezia del nord. Ricordo che quando ero appena giunto proprio questo cielo mi colpì prima di ogni altra cosa. Questo cielo senza fine quanto la pianura che giace sotto di lui. Si può parlare addirittura di un problema della natura che deve essere risolto. Il gesuita e ieromonaco Ivan Kologrivov nella prefazione a Saggi sulla spiritualità russa scrive: “Ha ragione Berdjaev quando dice che esiste un legame del tutto non casuale fra la geografia dell’anima e la geografia tout court. (…). Proprio come le distese del paese nativo, essa (l’anima russa) non conosce limiti, e il senso della forma ben definita, di cui vanno tanto fieri latini e greci, le è estraneo. (…). «Siamo immensi, immensi – Dostoevskij amava ripetere – altrettanto immensi quanto nostra madre, la Russia !...». (…). Questo distacco non significa affatto che il popolo russo sia meno peccatore degli altri, anzi lo è forse più degli altri, ma in un altro modo. (…). L’uomo occidentale, infatti, tiene alla propria posizione sociale, ai propri beni, all’esistenza comoda non in ragione delle proprie debolezze e dei propri vizi, ma in ragione delle proprie virtù sociali, fondate e giustificate da principi: ha una propria ideologia che giustifica tutto ciò. Il russo, no. (…). Il suo caso è stato definito molto bene quando si è detto che il russo è sempre con Dio o contro Dio, ma mai senza Dio”1.
Se è consentito anche a noi, che viviamo in Russia già da diverso tempo, un altro abbandono poetico, possiamo dire che l’amore di Cristo ai russi lo porta la neve. A noi italiani probabilmente soprattutto le colline e i monti parlano di Lui. Nella tradizione cristiana e biblica Dio appare spesso nei luoghi elevati. Lo sguardo verso di loro ci ricorda l’intreccio delle cause e la complessità della Creazione. Le infinite pianure della Russia possono invece mascherare d’assoluto questo mondo finito. Hanno anche la capacità di parlarci del cosmo contemporaneo, nel quale le linee parallele ardiscono incontrarsi nelle lontananze intergalattiche. Le sconfinate pianure della Russia forse ci illudono sulla infinità dell’anima umana su questa terra. Purtroppo il nostro cuore attende invece ancora l’ultima metamorfosi, quella della Sua Seconda Venuta, e troppe cose ci sono ancora oscure come in un cattivo specchio (gli specchi di cui parla san Paolo non erano quelli di oggi…“Ora vediamo come in uno specchio”, diceva, nella Prima Lettera ai Corinzi, 13,12). Ecco perché gli imperi immensi si trovano così disarmati di fronte alle tentazioni del Diavolo. Solo te stesso vedrai ed amerai e solo te stesso odierai: è il rischio di questo cattivo specchio del peccato che ancora giace fra questo cielo e questa terra. Quindi, forse, “solo” la neve del Natale, il sole gentile della Pasqua e le vie interne della città ci parlano di nuovo del Cristo.
Eppure noi possiamo aiutare questi fratelli dell’Est a non guardare solo se stessi, e troveremo gente non solo curiosa, ma anche profondamente contemplativa. Ricordavo le parole del metropolita Platonov, citatemi da padre Mikhail quando mi comunicò. Le barriere fra di noi non si inerpicano fino al Cielo. Lui intendeva dire Dio. Forse però non si inerpicano neanche fino a questo cielo con la “c” minuscola, il cielo di questa nostra terra, granello nel cosmo curvo e finito che ha scoperto Heinstein, ma che prima di lui aveva intuito già lo scienziato russo Lobachevskij. Perché è lo stesso cielo, sia esso raccolto e dolcemente curvo all’orizzonte come il nostro cielo italiano, sia esso serenamente planante come un lontano stormo di aquile come qui in Russia.
Dostoevskij diceva che niente comincia e niente finisce, ma che tutto è eterno. Pasternak a sua volta amava ripetere che l’immortalità è come un altro nome della vita, un po’ più ricco. Certo di dolore e di male in questo mondo ce n’è a sufficienza, e direi anche in abbondanza; e noi occidentali siamo sempre stati molto sensibili alla cura dei diversi mali, sia dell’anima che del corpo. Eppure la speranza più grande nel pensiero contemporaneo è stata pronunciata da un russo, Dostoevskij. Ivan Karamazov nei “Fratelli Karamazov” dice al fratello Aljosha che il dolore dei bambini è senza spiegazione, soprattutto dei bambini vittime della violenza. La scuola di Beslan è un ricordo recente per noi. Ivan K. diceva quindi che l’unica decisone saggia e coraggiosa è abbandonare ogni sogno di armonia futura, celeste o terrena che sia, e restare invece per sempre insieme alle lacrime senza riscatto di quei piccoli. Aljosha però rispondeva al fratello che proprio per poter restare con quelle lacrime senza riscatto bisogna morire con loro insieme al Cristo, e con Cristo e con loro risuscitare, fuori di ogni fredda logica del giudizio.
“Ama la vita più del suo senso, e anche il senso ne troverai!”, diceva ancora Dostoevskij. L’unica cosa che può salvare l’individuo dalla pazzia di fronte al volto incomprensibile del dolore universale, è solo un sottile e inestinguibile senso di responsabilità. “…Ciascuno di fronte a tutti, per tutti e per tutto è colpevole”2.
Rivolgendomi infine di nuovo ai lettori di queste righe dico perciò che se non vi ho convinto che noi abbiamo bisogno della Russia, e lei di noi, è stata solo colpa mia, e vi chiedo perdono.
1 Ieromonaco I. Kologrivov. Saggi sulla spiritualità russa. Siracusa, 1991. Pp. 7-10.
Anno II - numero 3 – marzo 2005