venerdì 12 marzo 2010

CENNI DI UNA STORIA, QUELLA DELLA DEPORTAZIONE E DELL'INTERNAMENTO IN GERMANIA DI MIO PADRE, ENZO MARIA CAPILUPI


Quella che segue è la fedele trascrizione, appena riordinata, di una serie di appunti presi nell'agosto del 1992 in località di San Felice Circeo. Il sottoscritto era di ritorno da un inter-rail che aveva toccato anche la Germania e fresco di maturità classica appena conseguita. Convinse il padre a raccontargli il più dettagliatamente possibile l'esperienza della guerra, insieme a qualcosa della sua infanzia e adolescenza durante il fascismo. Lo stile del racconto è quindi quello del protagonista, appena trasformato dalla capacità di comprensione e di trascrizione immediata del figlio, nonché dalle domande di quest'ultimo, assai interessato ai particolari del quotidiano e alla collocazione anche cronologica degli avvenimenti. Mi sospingeva difatti un interesse di carattere storico-letterario, data l'intenzione che avevo di farne un romanzo. Ciò mi ha portato anche però a segnare a volte appena dei riferimenti, sicuro com'ero allora di tornare presto su quei fogli ai fini d'una assai più estesa rielaborazione. Sono passati invece 8 anni e anche quando riesaminai il lavoro in occasione della morte di mio padre e del mio viaggio a Livorno a casa di Elio Begni, mai da me prima incontrato, alcuni momenti mi risultavano oscuri. Enzo Maria Capilupi non aveva mai voluto raccontare ai propri figli troppe cose della terribile avventura vissuta in gioventù. Nella primavera del 1994, all'età di 67 anni, ha lasciato questa terra.


Roma, 7 Agosto 2000
Stefano Maria Capilupi



Papà [ovvero mio nonno, di nome Antonio. N.d.A.] era focomelico [questa è la parola trovata negli appunti, ma che non ho riscontrato in nessun testo medico o scientifico da me consultato. Trattasi comunque, anche a dire di mia madre, del termine che mio padre usava spesso per indicare la malformazione del padre: ovvero una forma di ectrodactilia, o meno probabilmente di sindattilia, totale ad una delle due mani. Era la ragione per cui il nonno, a dire di mio padre, era sempre molto preoccupato anche di fronte al più piccolo graffio dei figli: "Voi che avete la salute, non rovinatela!", sembra proprio che dicesse. N.d.A.]. Il più grande di tre fratelli. Sua zia era solita dire: "Totò, il tuo uovo si è rotto!".
Il fratello Ugo andò nel corpo del Genio militare, a occuparsi quindi di mine e di ponti. Bella divisa. Totò invece fu riformato. Dovette abbandonare gli studi classici alla morte del padre per andare a studiare da ragioniere ("amministrare la fortuna di casa!"). Mamma era forte. Tollerava i suoi sfoghi di nevrotico. S'imponeva con i silenzi. Eppure papà inizialmente fu antifascista. Al teatro di Catanzaro [la famiglia di Enzo, sia i Capilupi, che gli Scalise, erano calabresi e vissero a Catanzaro fino a quando Enzo non ebbe 5 anni, che fu anche il momento in cui si trasferirono a Roma. N.d.A.] non si alzò al canto di "Giovinezza". Mamma lo imitò. Un fascista lo schiaffeggiò. Nel suo cambiamento influì anche, in parte, l'aut-aut postogli dalla Banca d'Italia, e da iscritto al partito di malavoglia divenne fascista. Forse ebbe il suo peso la questione della divisa che anche i civili indossavano: gli stivali da ufficiale (ché i soldati semplici portavano le fascie, i sottoufficiali i gambali); come giacca la sahariana, giacca nera senza baveri; in testa il fez. Il sabato si vestiva, passava due orette in compagnia dei gerarchetti di rione. Le immagini della forza: il duce seminudo a mietere il grano, il duce seminudo a sciare. A scuola "fuoriuscito" e "democratico" erano i più grandi insulti. Da piccolino ero Balilla. Di professione mi vedevo un giorno cacciatore in Africa. Prima dell'inizio della guerra l'unica persona che mi faceva un po' ragionare era mia sorella Ninni: certe sue frasi strane, alcuni suoi dubbi. Io ero ingenuo e sereno. Alla radio si ascoltavano romanzi a puntate, "i quattro moschettieri", i discorsi di Mussolini. In casa si comprava regolarmente "Il giornale d'Italia". Dell'infanzia in Calabria ricordo invece veramente poco: appena la sagoma della casa, i volti delle sorelle Silvia e Ninni piccoline, ché eravamo ancora solamente noi tre; le lumache che cucinava la zia, la pena enorme che ne provavamo: la decisione di farle scappare. Gli steli del grano mi riempivano impercettibilmente di ferite quando correvo per i campi. Ricordo anche Morcellinara e lo zio Umberto, così affettuoso con noi [Umberto Scalise, fratello della madre Ines, cioè mio prozio, persona veramente cara, che anch'io ho avuto la fortuna di conoscere. Questo lavoro presente si conclude per altro con una sua poesia da me volutamente inserita. N.d.A.].

A Roma cambiavamo casa ogni nuovo figlio: ne nasceranno dieci in tutto, ne rimarranno presto sette. Il piatto più frequente era la "misticanza": erbe varie lessate, senza sale né olio. Il pane era razionato, ma su una rosetta scarsa al giorno ciascuno potevamo più o meno contare. Pasta la domenica: pasta nera, cattiva. Alla borsa nera si prendeva quel poco che lo stipendio di papà permetteva. Allo scoppio della guerra il caffé costava £ 3,5 l'etto, il giorno dopo salì a 50 £ l'etto, il mensile di una domestica. Col mercato nero cominciò il lavoro dei borsarineri, che si adopravano con camionette di fortuna; per loro la pena di morte. Il sale non si trovava più perché se lo prendevano gli allevatori di maiale. Lo scambio frequente era sale-mezzo maiale. La gente si portava l'acqua di mare sulle terrazze per ottenerne il sale.

L'inizio delle medie superiori coincise con lo scoppio della guerra. A scuola entrai in contatto con un antifascismo blando o non ancora formatosi: Claudio Fiorini [nipote diretto di un caduto alle Fosse Ardeatine, Fiorino Fiorini, e poi per tanti anni collega di Enzo nella professione di avvocato e suo amico intimo. N.d.A.], Luciano Orlandi, Salvatore Barletta. Feci il quarto e il quinto ginnasio al Virgilio. Io ripetevo ad alta voce gli slogan del regime e Fiorini leggeva la "Gazzetta dello sport". Cominciavo a sentire una grande inquietudine. In primo liceo andai al Dante Alighieri e fui bocciato. Ripetei l'anno. Papà venne trasferito a Milano e noi lo raggiungemmo e ci sistemammo a Camnago Volta. Ci autodefinivamo "gli sfollati". Preparai privatamente gli esami per entrare al liceo di Como, ma anche lì andò male. Dovetti aspettare la fine della guerra per chiudere i conti con il liceo superando direttamente l'esame di maturità. A Milano le bombe avevano decimato le case. Ogni notte assistevamo in terrazza allo spettacolo luminoso delle bombe. Papà veniva da Milano ogni sera. "Sotto le macerie si sentono urla"..."Non si sentono più". Siamo alla fine del '43, nelle settimane immediatamente successive all'8 Settembre. Corressi la carta d'identità, non avevo compiuto ancora i 17 anni. Uscii di casa e andai a Milano. A Milano chiesi a dei bersaglieri; loro mi indicarono la caserma La Marmora, la terzo bersaglieri. Fecero finta di credere ai miei 17 anni compiuti. Pensavo a mio zio Ugo morto in guerra, al cugino in Africa. Mi sentivo un po' patriota, un po' cacciatore di bestie feroci. In uniforme di bersagliere andai alla Banca d'Italia. Chiesi all'usciere di papà. Quindi ci ripensai e fuggii. I miei avevano già mobilitato, interrogato e implorato presso il corpo tedesco qui e là. Papà e mamma mi vennero a riprendere in caserma. In realtà era un momento difficile per tutta la famiglia: la nostalgia di Roma, le umiliazioni inflitteci dai contadini brianzoli. Io e le sorelle Silvia e Ninni andavamo, per tutta risposta, a rubare patate, pomodori, zucchine, cetrioli e more di gelso. Soprattutto le more. 'Sti fetenti ci rincorrevano e minacciavano anche per le more di gelso. Erano belle more e ce n'erano sia di bianche, che di nere. Le foglie di gelso sono cibo per i bachi da seta nelle lettiere, i bachi che vengono bolliti nei bossoli prima della mutazione. Le more di gelso quindi sono frutti inutili, buone solo per qualche bambino vivace e goloso, come noi allora appunto. A mitigare la situazione c'era la simpatia del contadino Cecco per la sorellina Annamaria. Eravamo nella casa patronale di Alessandro Volta. Erano rimaste due vecchiette, le sue due figlie.
Al ritorno dalla caserma portai una bomba a mano e la posai sull'armadio più alto di casa [!. N.d.A.]. Mia madre tornò a Roma per tenere occupato il posto di maestra. Papà ebbe un avventura con la cameriera. La cosa si scoprì e io ebbi uno scontro duro con lui: non potevo accettare che a causa del sentirsi offeso alzasse le mani su di me. Tornammo a Roma e per farlo papà rinunciò alla promozione, ponendo termine alla carriera. Ci sistemammo in via Gioacchino Belli. Molti elementi si erano aggiunti e facevano montare la mia inquietudine. Scappai di nuovo e mi arruolai nei paracadutisti a Palidoro. Mio padre e mia madre andarono al Comando tedesco: vi trovarono un ufficiale tedesco gentile, ma intransigente (peraltro, avevo ormai già compiuto i 17 anni). L'esercito italiano era composto nella sfera degli ufficiali e dei sotto-ufficiali quasi unicamente da tedeschi. La divisione Folgore aveva a Spoleto la zona di apprendimento, quindi dovevamo spostarci da Palidoro a Spoleto. In congedo da Palidoro, prima di partire, sfruttai l'occasione per fare una visita alla mia classe del Virgilio, in uniforme [non trovo scritto altro, ma ho il ricordo netto del suo commento, anche se non delle parole precise: i compagni lo guardavano un po' come un marziano, uno scemo o un fanatico. Questo era il senso delle sue parole. N.d.A.]. Una volta a Spoleto, non ci fu nessun apprendimento, lo scopo diveniva il fronte di Cassino. Giunse lo sbarco degli americani ad Anzio e un plotone venne spostato per sostituirne un altro in prima linea. Fu la mia prima vera esperienza diretta di guerra. Eravamo comandati da un sotto-ufficiale tedesco. Stavamo la notte nelle camionette, di giorno nelle buche. All'orizzonte gli Sherman. Io col mio Beretta tiravo ogni tanto qualche colpo in aria. Il tutto durò 5-6 giorni, poi fummo richiamati, per essere utilizzati invece nel rastrellamento a Monteluco dei partigiani. Prima di giungervi però passammo per un piccolo paese tutto serrato nelle proprie case. Quella notte sopra i mille metri fu freddissima. Questione di un giorno: marcia su per Monteluco; ritorno in caserma. I bombardamenti americani a Spoleto fecero saltare in aria tra le altre cose tutto un treno carico di munizioni e la stazione stessa. Le schegge ci raggiungevano nel campetto sportivo. In tre ci rifugiammo in una trincea, io e due gemelli: un pezzo di rotaia colpì in pieno uno, che morì sul colpo, praticamente scomparso sotto l'arnese piovuto dal cielo; il tutto avvenne ad un passo solo da me, nella stessa piccola buca. L'altro si salvò e fu rimandato a casa. A Spoleto eravamo tre gruppi: io ed altri ne costituivamo uno di giovani studenti volontari; un secondo era quello degli ex dell'esercito regio, stanchi, anziani, ostili, pronti ad abbandonare (i ragazzi del '19; di questi uno solo conobbi della divisione Aqui, gli ex della Grecia); un terzo gruppo era pieno di malandrini avventurieri. Spoleto: la sua gente, stanca dei tedeschi, comprensiva verso di noi, ci invitava a tornare a casa. Il governo fascista richiamava in quei giorni le leve fino alla classe del '25. Pochi giorni prima di Pasqua (siamo nel '44) chiesi tre giorni di congedo. Mi furono rifiutati. Io, incosciente, andai lo stesso. "Vado a dare una guardata intorno", dissi. Era il tramonto. Raggiunsi la statale e feci l'autostop. Mi raccolse una camionetta piena di uova [non lo trovo scritto più nei miei appunti, ma in questa occasione mio padre dovette fare una bella scorpacciata di uova, svuotando praticamente il carico, perché molte altre volte me lo aveva raccontato, vantandosi della sua resistenza gastrica; a meno che non si fosse trovato in una situazione analoga nel '45 di ritorno dalla Guerra, ritorno che purtroppo non ebbe modo di raccontarmi direttamente, visto che le vacanze finirono, lui tornò a lavorare e le poche estati successive prima della sua morte non offrirono una simile occasione di tranquillità e di riflessione. Credo comunque che fosse proprio questo il famoso viaggio delle uova. N.d.A.]. Alla guida, forse, un borsaronero. Mi scaricò alle porte di Roma. Un due tre ore a piedi e raggiunsi casa. Ci rimasi quattro giorni. Quindi mi riaccompagnarono a Termini di sera per tornare a Spoleto. C'era il coprifuoco, ma io utilizzai la parola d'ordine: "Nembo!". Col treno tornai a Spoleto. Di mattina mi presentai al reparto. Incontrai il sotto-ufficiale tedesco che comandava la mia compagnia (tre plotoni componevano una compagnia, tre compagnie un battaglione; un plotone era formato da 33 uomini, ma in tempo di guerra si raggiungeva anche il centinaio; a Spoleto si era all'incirca un battaglione). Lui fece atto di aggredirmi e, brevissimamente, ci accapigliammo; ci staccammo subito. Mi rinchiusero in una parte della caserma. Quindi, nella rocca di Spoleto. Solo, in una cella con una brandina pieghevole attaccata alla parete; sulla rete un pagliericcio pieno di cimici; un pertugio in alto. Le cimici di giorno facevano in alto un orlo rosso. Io improvvisavo torce di carta di giornale per ucciderle; mi facevo sigarette di crine. Le cimici rosse ("cimici di casa") la notte mi mordevano; la mattina mi svegliavo letteralmente ricoperto di bolle; ripensavo alle cimici di campagna che mangiavo a volte distrattamente insieme alle more su a Camnago Volta. C'erano diversi rinchiusi. Non delinquenti comuni: o disertori, o partigiani, o politici. I pasti nella gavetta: noi gliela porgevamo e ci davano, dal bidone, passando, dei mestoloni di brodaglia (la "sbobba"). Dopo un paio di settimane (durante la mezz'ora d'aria ci passavamo correndo dei pettegolezzi; io cominciavo a pensare agli americani come salvatori) si venne a sapere che avevano processato e condannato a morte un disertore: o un partigiano? Più probabilmente un disertore. Dopo un paio di giorni da tale notizia aprono con violenza la porta: si presenta un ufficiale tedesco con due militari armati. Questo comincia a leggere ad alta voce la sentenza. lo fa in tedesco. Allora, che cosa avete detto, sono io quel disertore condannato? Erano questi i miei pensieri. Uno dei due militari o lo stesso ufficiale (adesso non ricordo) tradusse: 5 mesi di compagnia di disciplina. Dopo un mese di prigionia, due o tre giorni dopo la sentenza, io ed altri, un gruppetto, fummo presi e portati alla stazione di Spoleto e infilati in un vagone merci-carro bestiame (c'erano delle finestrelle con delle piccole sbarre per dare aria alle bestie). Era notte. Eravamo a Maggio, massimo primi di Giugno. Pigiati come sardine partimmo; breve sosta a Firenze, dove ci fecero restare qualche ora nelle camere di sicurezza, probabilmente, della polizia ferroviaria; ogni tanto ci passavano una fetta di pane nero. Avevamo un gibl, secchione tondo della mondezza, per soddisfare certi bisogni. Il pavimento era fatto di legno. Firenze fu l'unica uscita. Spesso il treno si fermava ore ed ore e noi non sapevamo dove e perché. Entrati in Germania cominciavano a far scendere e a salire. Alcuni dei compagni italiani erano scesi a Verona. Entrati in Germania salivano ebrei, francesi, inglesi ed altri; e poi lingue strane, sconosciute. Mi fecero scendere a Torgau, dopo 5-6 giorni di viaggio. Era un campo di concentramento fatto di baracche di legno per militari. Dalla stazioncina arrivammo a piedi al campo. Per terra fanghiglia e ghiaccio sporco. La mia baracca era alta 3-4 metri, letti a castello, in una baracca eravamo 50 circa. Il capo-camerata era sempre un prigioniero tedesco, noi "collaborazionisti" di tutte le nazionalità, militari che avevano sgarato. Cosa mangiavamo? Minestra calda, fetta di pane con un quadruccio di burro e marmellata; una volta la settimana ci mettevano un po' di carne nella brodaglia. Alzata con le stelle, nelle prime ore movimenti da reparto militare: di passo, di corsa, fermi venti minuti sull'attenti, di passo nuovamente. Due tre ore così. Verso le otto a lavorare a distanza di due tre chilometri: c'erano binari morti con dei vagoni da scaricare (sacchi, tondini di ferro, quelli lunghi per il cemento armato; fasci di qualche decina; ci vogliono almeno due uomini per trasportare un fascio). Dovevamo spaccare e scrostare il ghiaccio; e poi il tristemente noto "fare buca-riempire buca". Poi ci portavano anche presso un magazzino, sempre col camion, per fare trasporti: un magazzino pieno di forme di formaggio, sacchi di farina, sacchi di frutta secca, barili di olio. Roba che non era destinata a noi, naturalmente. Il secondo o terzo giorno che raggiungevamo questo magazzino, trovammo anche un sacco da cui fuoriuscivano prugne secche: o si era sgarato da sé o qualcuno lo aveva voluto aprire. Ciascuno se ne mangiò almeno una e molti, fra i quali anch'io, se ne misero un po' nelle tasche. Ci sistemarono in fila: un giorno di cella di rigore per ogni prugna. Io ne avevo cinque. Uno se ne era prese più di trenta. Mi mandarono direttamente nella cella, in una struttura lontana dal campo, a parte, una vera e propria prigione, piena di cellette. L'aspetto esterno di tale struttura non me lo ricordo perché era già l'imbrunire. Un buco vagamente rettangolare, due per due, la finestrella sigillata con i nastri adesivi, così anche la porta, 5 o anche 7 persone tutte pigiate lì insieme, col mento sulle ginocchia, in un angoletto il vasone per i rifiuti alto un metro e qualcosa. In poco tempo ci ritrovammo sommersi dal nostro stesso pus. Finalmente, terminati i 5 giorni, mi riportarono al campo di Torgau. Mi cagarono nello scarpone durante la notte. La mattina andai alla fontana e assistetti allo "spettacolo" di quello sbeffeggiato perché s'era cagato sotto: gli urlavano "porco!" e gli gettavano addosso acqua gelata con le pompe. Come ci facevano fare i letti? Il capo-camerata voleva i letti tutti pari in prospettiva, bisognava arrotolare i lenzuoli ai bordi del pagliericcio, tra il pagliericcio e la parete del cassone. Se non andava bene, tirava fuori tutto, lo buttava per terra e vi rovesciava sopra il giblen. La differenza fra stranieri e tedeschi si vedeva anche quando il prigioniero veniva liberato: lo vedevamo esercitarsi ai bordi del campo per tornare ai reparti. In realtà anch'io speravo, una volta scontati i 5 mesi, di tornare a casa, nel mio reparto. Quando scontai i 5 mesi invece, me ed altri ci portarono a Erlangen, vicino Norimberga [ma prima ancora stettero 10 giorni a Norimberga. N.d.A.]. "Cittadina ospedaliera", piena di cliniche, di ospedali (forse proprio per questo non fu bombardata, mentre Norimberga sì; c'erano difatti in degenza anche prigionieri inglesi ed americani). In quel periodo ci fu l'accordo Pavolini-Hitler (Pavolini era il ministro degli esteri di Salò). I prigionieri che giuravano di non fare danni, rimanevano in campo di concentramento, ma liberi di andare a lavorare e girare per la città da mattina a sera. Cibo sempre poco. La domenica lavoro extra per case tedesche (spaccare legna) in cambio di patate e simili. Durante la settimana i tedeschi ci mandavano nelle gallerie di una collina, dove dovevamo forare ed ampliare; più che altro si rivestivano le caverne di muratura. Doveva nascere una fabbrica. Si scavava per costruire la ciminiera che avrebbe raggiunto la vetta della collina. Così trascorrevano l'autunno e l'inverno del 1944. Si raggiungevano anche i 25 gradi sotto zero. Io avevo sempre la mia divisa, ma sotto la giacca (senza colletto e baveri) la camicetta di seta rosa a puá blu, a pelle, nient'altro. Ci dovevamo fare a piedi dal campo al posto di lavoro e ritorno (7-8 Km). Ci davano una piccola paga. Paga settimanale o quindicinale. Il sabato pomeriggio, birra! Guardare le ragazze ci era però espressamente vietato. Raccattavamo le cicche. Potevamo comprare le cartine per le sigarette. La fortuna era la cicca di sigaro tedesco. Addirittura seguivamo come iene il pancione tedesco di turno con la sigaretta. Le donne tedesche, giovani e non, avevano l'abitudine di buttare pannolini dalle finestre sugli alberi. Una sera fui oggetto di un tentativo di rimorchio da parte di un capitano (o colonnello, non ricordo) tedesco. Mi trovavo alla stazione di Erlangen. Quello mi diceva: "Perché non vieni a casa mia, sono solo, ti do da mangiare, sei un bel ragazzo, io sono stato a Venezia...". Lento lento mi allontanai.

Ricordo bene il lavoro in ciminiera durante l'inverno. L'impalcatura lungo la ciminiera, un uomo per piano, i mattoni, incrostati di ghiaccio, si tiravano in alto, il mattone graffiava le mani, quello di sopra doveva con la cazzuola scrostarlo, altrimenti non era buono per la costruzione. Ma io cercavo di sfuggire il lavoro il più possibile. Mentre ci muovevamo nelle gallerie, scappavo, mi ficcavo in un buco e dormivo. L'ufficiale tedesco lì di guardia, per mia fortuna, era buono in fondo, con due figli morti in Russia. Mi aveva soprannominato: "Schlafen Capilupi". Due italiani, caduta una parete, si ritrovarono in una galleria sconosciuta, quindi nella cantina di Goebbels, piena di cognac e di champagne francesi ed italiani. Si ubriacarono. Una di queste gallerie era usata per coltivare funghi, ma a noi lì non ci mandavano. Il lavoro era in mano a una ditta di civili; i capi dirigenti di lavoro, civili, ci davano qualche notizia. Qui ebbi modo di legarmi in amicizia con Gioberto Guerrini (detto Giobini), Elio Begni e Armando Tani. I primi due erano di Montalcino, il terzo di Livorno. Tani era alto 1.90, fortissimo, un bamboccione buono. Anche loro, i primi due, avevano una vaga provenienza repubblichina; in realtà erano dei fieri antifascisti. Avevano addirittura contatti con i partigiani. Erano stati rastrellati in età da militare in Italia e dovettero dare una sorta di adesione. Avendo tentato di fuggire, erano stati deportati come disertori in Germania. Io raccontai loro tutte le mie vicende. Mi dicevano: "Ti avrei sparato, se ti avessi incontrato in Italia" [dalla bocca di Elio Begni ho saputo qualcosa di più: a Torgau papà aveva scontato 5 mesi, loro tre 4, ma la condanna gli scadé lo stesso giorno. Si conobbero ad Erlangen. Quando si erano conosciuti, sedendo sulla stessa panca, si erano scambiati delle culate. Litigarono. Poi papà andò a chiedere scusa: sapeva di non avere torto nel fatto contingente, ma sapeva anche che quella divisa fascista che, in mancanza di meglio, ancora portava, offendeva gli altri. Gli amici gliene fecero un'altra di fortuna. Gli dicevano: ma tu sei matto! Più tardi scoprirono insieme un buco in una galleria e di lì andavano periodicamente a rubar le patate. Il tedesco vecchietto di cui parla papà, pur avendoli un giorno scoperti, li risparmiò. Elio stesso, di fronte alle mie domande inquiete di giovane cresciuto in scuole di vecchia e anche, a volte, ringhiosa tradizione antifascista, mi ha detto: "Tuo padre non aveva assolutamente alcuna colpa. Era cresciuto così e capì presto l'errore. Già a vent'anni spesso si è capaci di rivedere totalmente le convinzioni dei diciassette, pensa quindi in quelle condizioni e dopo quelle esperienze". N.d.A.].

Un giorno mi cominciarono a bruciare gli occhi, dopo due tre giorni quasi non ci vedevo più, barcollando arrivai in prossimità del Pronto Soccorso del campo. Mi trasportarono dentro. L'ufficiale medico appena mi vide mi fece portare in camionetta all'ospedale della cittadina. Era Marzo-Aprile del '45. Rimasi ricoverato 15-20 giorni. Era una bella stanzetta. C'era una giovane infermiera. Stavo da solo [se ci sia stata o no un'avventura o un flirt con la giovane infermiera, io non posso saperlo, perché vigeva un certo, anche se non rigido, pudore fra me e mio padre su queste cose. Probabilmente no, visto pure il rischio e il disagio che poteva comportare l'approcciare una tedesca in quelle condizioni. N.d.A.]. La finestra era sigillata. M'infilarono dei fili d'acciaio nel canale lacrimale per paura che la cicatrice chiudesse il canale. "Congiuntiviten acuten und tracoma". (A proposito: dai compagni venni chiamato "und Capilupi"). Mi misero fuori guarito.
Ci toccava di andare a prendere il pentolone del rancio nel baraccone vicino alla cucina. Essendo il mio turno [o forse credendo lui che lo fosse: le due versioni di questo fatto specifico, quella di mio padre e quella del Guerrini, discordano leggermente, sia qui che in altri punti. N.d.A.], mi accinsi anch'io a questa operazione, ma nel compierla me ne andai un po' a spasso per il boschetto. Venne a cercarmi un ingegnere tedesco. Venne giù in bicicletta su un sentiero di montagna. Era Maggio. Prese la bicicletta a due mani e me la voleva sbattere sulla testa. Gli saltai addosso. Ci rotolammo per terra. La cosa durò 20-30 secondi. Lui si rialzò, si allontanò vociando verso l'ingresso della galleria dov'era la baracchetta con l'ufficio del cantiere (qui lavorava il capocantiere circondato da mappe e registri). Io lemme lemme presi finalmente la minestra e tornai portandola ai compagni. Mi dissero: "Vai nell'ufficio dell'ingegnere, nella baracca di sopra". Bussai. "Herein!" [almeno credo, io trovo scritto solo "-Entra!- in tedesco". N.d.A.]. Subito una botta in viso, per terra, fracco di legnate anche con i calci dei fucili. Mi portarono fuori tenendomi dai piedi e fuori mi lasciarono sul prato. Non so bene poi cosa successe. Ore di svenimento. Elio e Gioberto mi raccontarono: "Ti lamentavi, sul tavolaccio in galleria, chiamavi la mamma!". Di sera mi portarono di nuovo al campo. Il giorno dopo pensai: io al lavoro non ci torno! Avevo il rigetto definitivo. Sapevo che per due o tre giorni non mi avrebbero cercato. Predisposi la fuga. Mi confidai con i tre amici. Tani Armando acconsentì. Elio e Gioberto: "Ma non le senti le cannonate lontane?! Sono gli americani!". La mattina presto partimmo io e Armando. Verso sud, quindi verso la direttrice Norimberga-Monaco-Innsbruck. Seguivamo la strada lungo i campi. Norimberga era distrutta. La sera chiedevamo ospitalità alle case dei contadini. Le donne dappertutto dicevano: "Poveri Italienisch, tornate a casa? Venite nel pagliaio, attenti se torna il mio uomo, eccovi qualcosa da mangiare!". Durò una settimana. Arrivammo sul fiume [l'Isar, verosimilmente. N.d.A.], quello di Monaco. Che fare? Guadarlo era impossibile. Puntammo il ponte di ferro (sembrava un piccolo Brooklyn), nonostante le sentinelle. Avevo ancora la mia divisa grigio-verde. La sentinella che era sulla soglia del ponte ci prese e ci portò alla periferia di Monaco, quindi in gendarmeria. Seguì l'interrogatorio e io mi inventai una "palla": "noi eravamo in un campo di concentramento a Frankfurt sull'Oder, già occupata dai russi, le vostre truppe si sono subito disperse" [voleva far credere così di essere fuggito dai russi. N.d.A.]. "Come si chiama il campen?" "Non mi ricordo" [non era però abbastanza bravo a dire le bugie, o semplicemente non conosceva i nomi dei campi. N.d.A.]. Fui mandato a Dakau. Eravamo ancora ai primi di Maggio. Ci sistemarono in una baracca. Prima però doccia, rapamento generale, spruzzamento di disinfettante, via la divisa da paracadutista, al suo posto l'uniforme a strisce da carcerato. Baracca da 70, massimo 80 individui. Noi eravamo in 500. C'erano vecchi carcerati del primo attentato a Hitler. Eravamo di tutte le razze. Molti russi. Per una decina di giorni tentarono di portarci a lavorare (di nuovo binari, di nuovo "fai buca, riempi buca"). Dopodiché finì che rimanemmo nella baracca abbandonati distesi. Ogni tanto uno fornito e generoso (russo spesso) faceva passare la stessa sigaretta per una settantina di persone. Ci davano con un mestolino del brodo fatto con...[mi è incomprensibile per ora la parola che indica con cosa fosse fatto il brodo, ma riconosco per prima una "d", poi una "a" o una "o", quindi sembrerebbe "ti" o "eti". Non ricordo neanch' io ciò che avevo scritto. N.d.A.]. Una fetta sottile, trasparente di pane nero con dadetto di margarina e uno di cotognata. C'erano tutti letti a castello con tre posti, ma utilizzavamo anche il posto per terra. I letti a castello erano tutti attaccati con la media di un uomo e mezzo a posto. A ogni sveglia: 1 morto, 2 morti, 3 morti. I corpi erano messi nei bagni e lì lasciati per un po', perché così il capo-camerata si prendeva le razioni. Ogni mattina passava la carretta per i cadaveri. Cominciava dal fondo. Quando arrivava da noi era già stracolma, penzolavano teste, piedi e mani. Dopo la guerra avrei scoperto che subito dopo la mia baracca c'erano i forni crematori chiusi in una rete. Ricordo un episodio particolarmente raccapricciante: c'era un poveretto accovacciato al di là di quella rete, proprio dove, come avrei saputo poi, c'erano i forni. Lo menavano con i calci dei fucili. Tenevano fermi i cani. A un certo punto lasciarono: "Veck!" [sono sicuro del suono, ma assolutamente no dell'esatta grafia di questa parola. N.d.A.]. Girai la testa. Tornai, chiesi, mi dissero: "Che vuoi vede', i pezzi?". La baracca dopo la mia era degli ebrei, questo lo sapevo. C'era uno spiazzo in mezzo. Notai la carne che rientrava nelle ossa: un individuo. Il mio peso era sceso a 38 Kg. Capitò un giorno che sentimmo un crepitio di mitragliatrici. [Qui gli appunti s'interrompono. Manca quindi purtroppo il racconto della liberazione del campo da parte dei russi e degli eventi di quell'ultimo giorno e di quelli successivi durante il ritorno a casa. Qualcosa, pochissimo in verità, ho aggiunto e aggiungo sulla scorta di due fonti: una è originata da ciò che papà mi aveva detto a sprazzi altre volte; l'altra è la testimonianza dell'amico Elio Begni, che, sono sicuro, saprà raccontare tutto ciò meglio di me. Chiunque altro vorrà o potrà integrare od ampliare tale racconto, è invitato calorosamente a farlo. Rimane comunque la preziosissima fonte del diario del compianto Gioberto Guerrini, da me purtroppo mai conosciuto. N.d.A.].


Quando vennero i russi, a Dakau si scatenò la follia. La follia della gioia. Eppure anche questa gioia ebbe il suo risvolto tragico: due morti, uno perché si era abbuffato di margarina, l'altro per essersi gettato nudo in una vasca piena d'acqua. Sempre a proposito di follie, Armando Tani, prima ancora della venuta dei russi a Dakau (durante o l'internamento o la fuga da Erlangen) arrivò per la fame a cucinare un gatto. Trovo poi scritto: "gli zoccoli avvoltolati ai piedi". Spero che Elio saprà spiegarmi a cosa può riferirsi ciò. E' rimasta celebre l'allegria di papà durante il ritorno: "le coperte tirate a Bologna", le scampanellate a casa. Sono tutti dettagli da chiarire, magari anche con l'aiuto dei miei zii, che pur non avendo vissuto insieme a papà tali momenti, salvo quelli del ritorno fra le mura domestiche, potranno comunque aggiungere ciò che aveva raccontato loro lo stesso papà. Quella che segue invece è una poesia scritta da Umberto Scalise, mio prozio, facente parte del volume "H.iuri 'e jinostra" ("Fiori di ginestra"), regalato dal poeta a mia madre Giuseppina Colapietro in Capilupi; ossia la donna insieme alla quale mio padre potè costruire, a partire dal 1973, anno della mia nascita, la sua seconda famiglia, dopo la tragica perdita della prima moglie. Notizie importanti quest'ultime per la comprensione stessa della poesia.

Stefano Maria Capilupi
Ph.D.(philosophy)
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Na vota
piciriddi
intra i restucci da Chiusa
vi portai
e Ninna e tu
vi ricordati ancore
'e risate e 'a gioja
'e chiddu juernu.
U tiempu huje
e puru nui cangiamu.
Tu ti spusasti
e jisti au Canadà,
mu ti nde tuerni
ccu 'e picciulidde orfane.
Ppe tant'anni
u core tue hu scuru;
quandu a nna vota
s'aperiru 'e hinestre,
vidisti u cielu azzurru
e u sule trasiu intr'a casa tua.

(Umberto Scalise,
H.iuri 'e jinostra,
"Fiori di ginestra",
Pellegrini editore,
Cosenza 1981,
pagina 58)








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